mercoledì, luglio 19, 2006

Tempo di Vacanze...

Werner Herzog nel Ghana di Bruce Chatwin

Nel gennaio del 1971 feci il mio primo viaggio in quel Paese dell’Africa occidentale che allora, e da tempo immemorabile, era noto col nome di Dahomey. Visitai in particolare le vecchie città dei negrieri – Ouidah, Porto Novo, Grand Popo – che all’epoca della loro massima fortuna esportavano in America più schiavi di qualsiasi altra parte del continente. A queste città costiere è stato dato il nome collettivo di Piccolo Brasile – retaggio di generazioni di mulatti e di neri affrancati che “ritornavano” in Africa nell’Ottocento e si diedero a loro volta al commercio degli schiavi.

A Ouidah i due principali monumenti sono il Tempio del Pitone e Sigbomey, la casa grande brasiliana, costruita da un miliardario schiavista, Dom Francisco Felix de Souza. Costui era approdato alla Costa degli schiavi poco dopo il 1800 , col grado di tenente. Era in servizio al Forte portoghese, ma dopo aver ispirato e guidato una rivoluzione di palazzo con la quale depose il re del Dahomey per incoronarne un altro, cominciò a riorganizzare l’esercito dahomeyano – con i suoi reparti di amazzoni guerriere – per farne la macchina militare più efficiente dell’Africa.

Come ricompensa per i servigi resi, Ghezo, il nuovo sovrano conferì a Dom Francisco de Souza il titolo di cacha, o viceré, di Ouidah, ed il monopolio della vendita degli schiavi, che il governo britannico aveva da poco dichiarato illegale.

De Souza possedeva una flotta di navi negriere, alcune delle quali dotate della nuova bermudiana, che bordeggiavano più veloci rispetto alle fregate della Squadra dell’Africa occidentale. Il principe di Joinville, figlio di Luigi Filippo, fece una visita nel Dahomey e descrisse incredibili ostentazioni di opulenza – posateria d’argento, sale da gioco, sale da biliardo -, accennando anche al cacha, che andava in giro con un caffettano sporco ed un’aria da ebete. Verso la fine della sua vita, però, lo schiavista litigò con il re suo amico, fu mandato in rovina dai soci brasiliani e fu abbandonato dalla sua nidiata di figli mulatti. Morì pazzo, e per ordine di Ghezo venne seppellito in una botte di rum, con un ragazzo ed una ragazza decapitati, sotto il suo letto a colonne in stile goanese.

Il letto è ancora lì. Ai suoi piedi c’era una statua di San Francesco d’Assisi – di cui il negriero portava il nome -, mentre sul comodino erano posati un elefante d’argento, emblema della famiglia, e una bottiglia mezzo vuota di Gordon’s gin, per il caso che il vecchio si svegliasse con la gola secca. Una vecchia dalla pelle nera mi accompagnò nella visita. Era una de Souza anche lei, e parlava in un francese smozzicato dilungandosi sui tempi in cui i suoi antenati erano ricchi, famosi e bianchi. Quando tirò indietro le lenzuola, al posto del materasso venne fuori un cumulo di residui feticisti: sangue, piume, olio di palma e immagini metalliche di Dagbè, il Pitone sacro.

Era chiaro che avevo trovato una storia degna di essere raccontata; ma quando sette anni dopo tornai sul posto, il Dahomey aveva cambiato nome per diventare la Repubblica popolare del Benin. Il “pensiero” di Kim II Sung andava per la maggiore, e una mattina, con mio grande stupore, fui arrestato come mercenario. Mi costrinsero a spogliarmi ed a stare contro un muro, in piedi ed in mutande, sotto un sole cocente, mentre gli avvoltoi incrociavano sopra la mia testa e la folla fuori dalla caserma scandiva in coro: “Mort aux mercenaires!”. Dietro di me un plotone si esercitava con le armi, e il soldato che mi aveva in consegna tubava melodiosamente: “Ils vont vous tuer, massacrer meme!”.

Dopo questo incidente mi passò la voglia di proseguire le mie ricerche, benché avessi raccolto materiale sufficiente per scrivere un romanzo. Poiché era impossibile scandagliare la mentalità misteriosa dei miei personaggi, mi sembrava che restasse soltanto una soluzione: raccontare la storia attraverso una sequenza di immagini cinematografiche; e in questa direzione fui spinto senza dubbio dai film di Werner Herzog. Mi ricordo di aver detto: “Se mai questo libro dovesse diventare un film, solo Herzog potrebbe realizzarlo”. Ma non era che un sogno. Il romanzo, il viceré di Ouidah, apparve nel 1980, tra le perplessità dei recensori, alcuni dei quali trovarono insopporartabili le scene di crudeltà e la prosa barocca del libro.

Circa tre anni dopo stavo viaggiando nell’outback australiano, e un giorno, nel rientrane al motel di Alice Springs, trovai un biglietto con il quale mi si avvertiva che Herzog mi aveva cercato. Qualcuno gli aveva fatto leggere uno dei miei libri mentre girava Fitzcarraldo in Amazzonia. Voleva sapere se m’interessava collaborare alla sceneggiatura di un nuovo film sugli aborigeni, Dove sognano le formiche verdi.

Venne ad aspettarmi all’aeroporto di Melbourne: ascetico, con un paio di logo pantaloni militari e una maglietta che lasciava vedere il teschio ridente tatuato sulla spalla. Dopo un paio di minuti la nostra conversazione aveva già preso il volo in varie ed astruse direzioni.

Si dava il caso che tutt’e due fossimo alle prese con lo stesso tema, il rapporto degli aborigeni con la loro terra. Lui aveva le sue idee, io le mie. A mescolarle c’era solo il pericolo, secondo me, di aumentare la confusione generale. Riuscii comunque a trovargli una copia malconcia del Viceré di Ouidah. Lui disse: “E’ un testo che mia piace. Un giorno ne faremo un film”. La frase che gli piaceva più di tutte me l’aveva suggerita un bambino di otto anni, Grégoire de Souza, il quale, contemplando una fila di formiche bianche in marcia verso un frigorifero con la spina staccata, aveva detto: “le frigo exist”.

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