Tempo di Vacanze...

A Ouidah i due principali monumenti sono il Tempio del Pitone e Sigbomey, la casa grande brasiliana, costruita da un miliardario schiavista, Dom Francisco Felix de Souza. Costui era approdato alla Costa degli schiavi poco dopo il 1800 , col grado di tenente. Era in servizio al Forte portoghese, ma dopo aver ispirato e guidato una rivoluzione di palazzo con la quale depose il re del Dahomey per incoronarne un altro, cominciò a riorganizzare l’esercito dahomeyano – con i suoi reparti di amazzoni guerriere – per farne la macchina militare più efficiente dell’Africa.
De Souza possedeva una flotta di navi negriere, alcune delle quali dotate della nuova bermudiana, che bordeggiavano più veloci rispetto alle fregate della Squadra dell’Africa occidentale. Il principe di Joinville, figlio di Luigi Filippo, fece una visita nel Dahomey e descrisse incredibili ostentazioni di opulenza – posateria d’argento, sale da gioco, sale da biliardo -, accennando anche al cacha, che andava in giro con un caffettano sporco ed un’aria da ebete. Verso la fine della sua vita, però, lo schiavista litigò con il re suo amico, fu mandato in rovina dai soci brasiliani e fu abbandonato dalla sua nidiata di figli mulatti. Morì pazzo, e per ordine di Ghezo venne seppellito in una botte di rum, con un ragazzo ed una ragazza decapitati, sotto il suo letto a colonne in stile goanese.
Era chiaro che avevo trovato una storia degna di essere raccontata; ma quando sette anni dopo tornai sul posto, il Dahomey aveva cambiato nome per diventare
Circa tre anni dopo stavo viaggiando nell’outback australiano, e un giorno, nel rientrane al motel di Alice Springs, trovai un biglietto con il quale mi si avvertiva che Herzog mi aveva cercato. Qualcuno gli aveva fatto leggere uno dei miei libri mentre girava Fitzcarraldo in Amazzonia. Voleva sapere se m’interessava collaborare alla sceneggiatura di un nuovo film sugli aborigeni, Dove sognano le formiche verdi.
Venne ad aspettarmi all’aeroporto di Melbourne: ascetico, con un paio di logo pantaloni militari e una maglietta che lasciava vedere il teschio ridente tatuato sulla spalla. Dopo un paio di minuti la nostra conversazione aveva già preso il volo in varie ed astruse direzioni.
Si dava il caso che tutt’e due fossimo alle prese con lo stesso tema, il rapporto degli aborigeni con la loro terra. Lui aveva le sue idee, io le mie. A mescolarle c’era solo il pericolo, secondo me, di aumentare la confusione generale. Riuscii comunque a trovargli una copia malconcia del Viceré di Ouidah. Lui disse: “E’ un testo che mia piace. Un giorno ne faremo un film”. La frase che gli piaceva più di tutte me l’aveva suggerita un bambino di otto anni, Grégoire de Souza, il quale, contemplando una fila di formiche bianche in marcia verso un frigorifero con la spina staccata, aveva detto: “le frigo exist”.
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